Critiche e Saggi >> Antonio Rinaldi

Antonio Rinaldi

(vedi anche note biografiche sul poeta)

Storie Paesane

PREFAZIONE. Le Storie paesane sono un racconto unitario ma strutturato su diversi piani mobili, alternati e inter­secati fra loro in un perpetuo caleidoscopio. Il protagonista è in mezzo agli amici, a crocchio o a veglia (a filò, dicono nel contado ferrarese) e narra dilatando qualche volta gli avvenimenti nell’in­canto della memoria

(Ndunducce ciarfajeve certe sere /
de fatte ggià successe a la mundagne
 

ma con­tinuamente gli altri personaggi che l’ascoltano inter­vengono con le loro battute a svolgere anch’essi il filo, a contraddirlo, rimbeccarlo, ad aggiungere no­tizie dimenticate. E il cerchio s’allarga ancora per qualcuno che giunge trafelate da fuori a portar noti­zie del presente: il cane scannato dai lupi tra le nevi, fatto che può apparire e non è minimo perchè rientra nel clima immaginoso della popolazione isolata dal­l’inverno fra le montagne e nel ciclo che atterrisce, ma poi rasserena delle stagioni (s. 46):

La Canne­lore porte la nenguende, /
ma pure le ruselle pe le fratte.
 

Tra Scafa, Alanno, Turri, Roccamorice e San Va­lentino, i luoghi di cui Antoniuccio è il nodo - e di qui il racconto s’irradia a mo’ di favola - e la rap­presentazione si fa così corale ...; tuttavia mi sembra che la constatazione di fondo di fronte a cui il lettore di questi sonetti abruzzesi si trova fin dall’inizio è la coscienza storica dell’autore: qualcosa cioè, per cui il poeta è al di fuori del dialetto nel momento stesso che sino in fondo lo vive e ne palpita. Oltre che come linguaggio, Tontodonati sviscera il dialetto in tutta la sua ricchezza di vocaboli, quasi una vera e propria lingua nazionale. Giuseppe Tontodonati non è, nè si offre nel can­to come poeta civile, ma il dato storico italiano s’im­pone di necessità a chi lo vuole intendere. L’autore ce ne avverte già nel sonetto 3:

Gna cadde lu reame de Bburbone /
essubbendrò lu regne Savujarde...
 

e ri­corre lungo tutta la serie dei 133 sonetti (soprattutto in quelli dedicati ai briganti: una delle sue migliori riuscite artistiche) fino - la clausola è rivelatrice -al sonetto 131:

Nu piccule paese è ccome n’ove
checchiude la sustanze pe lu gussce,
peffàlle subbalzà bbaste nu frussce
o na vendate prime de la piove.

Se treme sess’acciòppeche nu vove
si sti bbardisce cresce troppe mussce,
o se pe qquistijone nghe le russce
se spenne la duppiette da lu chiove.
 

Tontodonati sembra possedere d’istinto lo stru­mento di penetrazione della psiche italica, e con fiu­to sicuro avverte, dal suo angolo di regione, i limiti e le angustie di un paese tornato - dopo i primi pas­si - al livello della preistoria:

- ttutte na faccen­de de famije /
- disse Ndunducce - e dde tradizio­ne: /
l’amore di li padre pe li fije, /
la festa ranne, la prucissione /
de lu Venerdissande evvija vije, (s. 131);
 

sa i mali che ha radicato nei secoli l’amore eccessivo dei padri per i figli (e viceversa); una vita sociale dominata sempre dalla paura in tutte le sue forme; la stessa esistenza nostra di oggi assillata dal terrore e dalla minaccia: stu vive tra lu scure o tra le spade in un orizzonte da cui nessuna forza d’amo­re e di pietà riesce a cancellare la condanna: addò le forche adombrène le strade. E non rifugge nemmeno dall’indicare certe ma­trici originarie (s. 130):

La scrofa nere magne a lu truccone /
prutette sembre da lu sacre mande /
e ttri­te gne le vache de farrone /
mercia vutive e riliquie de Sande.
 

A guardar bene non si tratta di pole­mica anticlericale, ma di un giudizio storico, legato e insieme distinto da una istituzione. Il male è l’avari­zia - l’educazione dantesca è evidente in lui. Due figure si presentano subito e conducono il racconto: Ndunducce, il protagonista, e lo scrittore degli stessi sonetti che si pone come alter ego al personaggio nel quale si è completamente obbietti­vato. L’impostazione non è di antitesi e di dialettica, ma di avvicendamento e alternativa: gioco e armo­nia di colori opposti e complementari che permette all’opera di manifestare tutta la gamma dei molteplici sentimenti di cui è materiata. Ndunducce resta il conduttore vero di tutti i racconti, ma l’autore interviene quando i sentimenti sono strettamente suoi, lirici, riguardano lui, le sue tristezze, la faticosa storia sua e della sua famiglia, il sepolcro lontano della madre nel cimitero di mon­tagna:

La neva bbianche rende cchiù lucende /
sta cerchie de mundagne ngire ‘n gire;
è nu canducce fatte pe ddurmire /
stu colle suletarie de In vende. (s. 51);
 

e infine il momento tragico del tempo che in­combe e rovina sulla serie dei tempi passati in una continua frana. Una delle cose più forti di Tontodo­nati è il senso stesso del tempo, il tempo obbiettivo che scorda; e se travolge superstizioni e folclore can­cella anche i suoi miti, le leggende, le origini, l’ono­re e l’onestà che al tempo primo dell’uomo erano in­dissolubilmente legate. Tanto che se la memoria ha ancora le sue parentesi felici:

Fundanelle d’ammonde a in Lavine, /
oho, fresche surgendelle d’acqua chia­re! /
Acque che ssurie ammezze a li vricciare /
tra Turre, tra la Rocche e Sanvaidine. (s. 22),
 

resta al tondo drammatica e quasi impossibilitata alla consolazione (s. 103)..

Strade deserte gne fiumane assciutte
che lu tembe levèlle a la sindine.
Mure che ccasche addò la burracine
s’affacce acciuffe verde tra li lutte

Li rade passe abballe a sti cundutte;
scorde lu ddore acregne de lu vine,
lu tarle sode dendre a la candine
lu legne marce e mmuffe de le vutte.
 

Lirica, elegia, memoria, arguzia e sapienza del proverbio popolare, e a volte senso tragico e desola­to del tempo; ma soprattutto umore, sapore, grotte­sco: mi sembrano queste le inclinazioni prevalenti in Tontodonati. Nella tradizione abbastanza ricca della poesia dialettale abruzzese, dai cinque sonetti di Fe­dele Romani, a De Titta, Della Porta, Clemente, Lu­ciani (a parte Cirese che è molisano), le Storie pae­sane si iscrivono con un tono che ci richiama diretta­mente al realismo. Leggendole non potevo fare a me­no di pensare a Giuseppe G. Belli, scavalcando qua­si e ignorando l’esperienza pascoliana attraverso cui molti degli altri suoi conterranei sono passati. Mi è parso cioè, di assistere a un tentativo di recupero della poesia dialettale alle sue fonti più concrete e più solide. Tontodonati può sbagliare - e sbaglia spesso in questa che è la sua opera prima - nel senso del­l’abbandono sentimentale e ingenuo (l’Abruzzo terra d’ore), ma possiede una forza e una natura di poe­ta che lo ricongiunge ,nella luce di un solo arco, al magistero belliano. L’augurio nostro di amico e di critico è che egli, ascoltanto sempre più a fondo se stesso, ne possa continuare la lezione. Certo è che molte di queste quartine e terzine più di una volta me ne hanno dato la spia:

Lu venerdì de mese quande la lune I
gne na pagnotte pe in cele vole, /
la ggenda triste che tteme lu sole /
sotte a na cèrca scure se radune. (s. 90);
 

oltre al sonetto esemplare (s. 36), anche per gli interrogativi critici che esso pone (Masaccio, Bruegel, realismo legato, o no al barocco?

Spundeve sembre ngime a Muscuttine
arnrnezze la strada nove, capabballe,
diasellènne gne na pandumime,
Necole. lu cecate nate a Salle.

Passeve corna passe lu distine,
nu poche annazzecchènnese le spalle.
Chi cchiù t’imbrissijone da vicine
le mazze che gna taste fa nu bballe.

Purteve sernbre gne nu cappellone
nere de ternbe e nghe la falda mossce
ch ‘j caleve n’ombre a lu cijone.

L’ucchiaje senza luce cove rossce,
gna fa la vrasce arnmezze a in fucone.
Pure stu cèche guarde e rrechenossce.
 

Altre volte dal realismo Tontodonati sembra pro­cedere, in una operazione istintivamente moderna, al traguardo di un altro realismo, quello assolutamente linguistico (s. 126):

Ndundncce tende nere gne mamrnone
strellève: - Vicce Vicce Panehonde!
Jisce de fòre suracaccia honde
nghe sse chiappe de cule accavecione!
 

Ma anche in questo caso lo scambio e il miraggio possono per un istante avvenire, se mai, soltanto nel critico, che nel contatto e nell’esame spesso logo­rante dell’arte d’oggi, rischia di tramutarsi, magari inconsciamente, in esteta, falso penetrante e squisito. In realtà - questa famosa realtà che tanto ci tormenta - si tratta soltanto della inventiva, ext- ravaganza, forza associativa, illuminazione di cui è capace l’uomo di tutti i giorni, il parlante quando a livello di strada, mercato, taverna. Siamo sempre e soltanto dentro la vita, così come sa coglierla nel suo entusiasmo e nella sua pronunzia la esplosiva vitalità del dèmone popolare. Tontodonati, nato a Scafa, ma cresciuto assai presto fuori, sembra posseduto anche da lontano, a Bologna, dove vive e lavora, dal genio delle sue ori­gini. Certo, per chi lo conosce, possiede il calore e la pazienza dell’artigiano che quel genio riesce an­cora a trattenere presso di sè. Ascoltandolo con fedeltà non gli sarà difficile accorgersi di certe smagliature nel tessuto narrativo e di qualche contaminazione fra dialetto autentico e ita­liano trasposto in dialetto, che ora qua e là si ve­rifica, e che la sua mente successiva avrà la forza di rimediare. Del resto questo problema (della me­diazione fra lingua nazionale e dialetto, e linguag­gio poetico in genere) è questione che investe non lui soltanto, ma ogni classe del nostro paese al mo­mento attuale.  

ANTONIO RINALDI Firenze, 10 novembre 1968

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