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Vittoriano Esposito

Quando, nella tarda serata del 6 gennaio 1989, Sergio Masciarelli mi comunicò la notizia della improvvisa scomparsa del caro Peppino, rimasi come impietrito: incredibile che un uomo e un poeta come lui, ancora nel pieno delle sue forze fisiche e delle sue energie creative, non ci fosse più, così, da un giorno all’altro, per un duro colpo del destino.

Era passato da me pochi giorni prima, in compagnia dello stesso Sergio, suo cugino. Era venuto da Bologna, dove risiedeva ormai da molti anni, per consegnarmi personalmente il materiale per il mio Panorama della poesia dialettale abruzzese, che avevo in corso di preparazione. C’intrattenemmo a lungo parlando di tante cose, riguardanti più il futuro che il presente e il passato. Mi disse infatti che stava lavorando alacremente ad una nuova raccolta di sonetti, che intendeva portare avanti ancora per molto, nella speranza di aggiungere qualche rifinitura all’edificio già così pazientemente costruito in tanti anni d’ininterrotta attività. Me ne recitò a memoria alcune pagine, per sentire qualche mia impressione a caldo, ed io ebbi a confermargli tutto il mio apprezzamento, con l’esortazione a proseguire nella sua bella impresa. Ci si salutò con un abbraccio affettuoso, come al solito, e con la promessa di rivederci presto.
Era venuto altre volte, con la moglie Gilda oppure col figlio. In ogni incontro, mi lasciava un frammento della sua fervida umanità, a testimonianza di un’amicizia non antica eppure autenticissima.

I poeti, dico spesso con me stesso, non dovrebbero morire: sono come l'anima del mondo. E infatti, a pensarci bene, non muoiono del tutto: sopravvivono con le loro opere, che recano l’essenza del loro cuore. Sarà certamente così anche per Peppino Tontodonati, grazie al suo monumentale Canzoniere d’Abruzzo (Editrice «La Regione”, Pescara 1986), accolto nella prestigiosa «Collana di poeti dialettali» che ho l’onore di dirigere con Giovanni Pischedda per l’Istituto dialettologico d’Abruzzo e Molise.

Opera davvero da ricordare, il Canzoniere d’Abruzzo, dove si coglie integro il sapore della nostra terra, dove si specchia tanta parte della tormentata storia della nostra terra, eppure passata come inosservata in qualche concorso che va per la maggiore nella nostra regione. Critici che spesso si entusiasmano per delle opere decisamente minori, la degnarono appena d’uno sguardo fugace alla sua uscita. Oggi s’impone duuque una rilettura attenta e, se si vuole, anche serenamente distaccata, per coglierne attentamente manchevolezze e difetti, ma direi soprattutto per misura me bene lo spessore umano e artistico, che a me è sempre parso notevolissimo.

Il «Canzoniere”, come si sa, raccoglie l’opera omnia di Tontodonati, ma rivisitata e disposta con criterio di sostanziale unitarietà, talché consente una lettura poematica. A ben vedere, tutte le tendenze della tradizione letteraria abruzzese vi sono magistralmente amalgamate: da quella folclo rico-bozzettistica a quella satirico-giocosa, da quella etico-civile a quella politico-sociale, da quella melodico-corale a quella epico-drammatica, da quella intimistico-elegiaca a quella lirico-esistenziale. Ed è proprio questa complessità di motivazioni e di componenti che gli conferisce quella ricchezza di toni e di sfumature che fanno di Peppino Tontodonati un poeta, se non più grande,indubbiamente diverso da molti altri del nostro tempo.

Di solito, com’è noto, accade che i poeti dialettali, non solo abruzzesi, trascorrano tutta la vita a descrivere usi e costumi della propria gente, a tratteggiare bozzetti un po’ di maniera, simpatici e vivi, ma pur sempre esteriori; oppure a fare dell’ironia, della satira, sia con intenzione burlesca che con risentimento morale, su fatti e personaggi desunti dalla realtà quotidiana; oppure, ancora, a cogliere aspetti e problemi della famiglia, della società, della storia d’oggi, per mette me a fuoco mali e storture, insidie e malessere; oppure, infine, a indagarsi nel profondo dell’io, interrogarsi sul proprio destino, far luce sugli eterni dilemmi della gioia e del dolore, dell’odio e dell’amore, del bene e del male, della vita e della morte, dell’effimero e dell’infinito, del relativo e dell’assoluto.

A mio giudizio, Tontodonati ha dimostrato di saper fare tutte queste cose di volta in volta, rispondendo al variare dei momenti d’ispirazione, e così si è rivelato un poeta completo, per così dire, e non importa di quale grandezza. Certo la resa stilistica si adegua al mutare delle scelte tematiche, ma in ogni caso si mantiene ad un livello di alto decoro, per serietà d’impegno non meno che per quella che può dirsi la rifinitura letteraria. Sì, rifinitura letteraria. E qui è doveroso accennare, sia pure di sfuggita, ad una questione che d’ordinario viene sottovalutata, per non dire ignorata, dalla pletora dei rimatori dialettali: la conoscenza e la pratica dei codici di scrittura. E la questione che, in fondo, concerne l’uso d’ogni lingua. E si sa che il dialetto non è altro che una lingua ristretta all’uso d’una comunità più piccola; una lingua che, come tutte le altre, va salvaguardata non solo nella fonetica dei parlanti, ma anche nella morfologia e nella sintassi di coloro che scrivono.

Ebbene, su questo punto fondamentale l’esempio di Peppino Tontodonati può essere riguardato come una guida sicura e illuminante: egli infatti ha saputo, come pochi, piegare il linguaggio natio, dell’area Scafa-San Valentino, alle esigenze letterarie, rispettandone scrupolosamente segni e significati, con un’operazione di fine cesellatura, che ha dato poi il tocco distintivo della sua caratura poetica.

Anche per questo, il Canzoniere d’Abruzzo è un’opera destinata a rimanere nella storia della poesia abruzzese.

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