Critiche e Saggi >> Francesco Desiderio

Francesco Desiderio

Francesco Desiderio (Chieti 1923 - 1993). Docente, Preside del Liceo Scientifico Statale "G. Galilei" di Pescara (prima del 1982), Preside del Liceo Classico "G. D'Annunzio" di Pescara (dal 1982 al 1989), e giornalista. E' stato tra i maggiori esponenti della cultura abruzzese del secondo novecento. Tra gli anni '80 e '90 ha curato per lungo tempo la ribrica "Cultura Pescarese" sul quotidiano "Il Tempo - Cronaca di Pescara"

Lettera di ringraziamento per il S'ammalindine

Caro Tontodonati, tornando a Pescara dopo un periodo di assenza, trovo il Suo nuovo libro di poesia, del cui invio La ringrazio sentitamente. Ho letto i Suoi bellissimi sonetti con vero godimento, e traendone conferma alla mia convinzione che solo nel dialetto possono trovare adeguata espressione quei sentimenti, affetti, pensieri che traggono origine, nella nostra anima, dei cari piccoli ambienti che nel dialetto hanno già la loro voce e nella poesia. Nei suoi sonetti San Valentino è veramente viva: viva nei personaggi, nei diversi luoghi, nelle chiese, nelle montagne che la circondano. E la nostalgia che Ella sente nell'evocare il piccolo mondo paesano non è il solito rimpianto che si prova per cose lontane e perdute, ma ha un che di vivo, di fresco, di gioioso; e la meraviglia che ancora il paese nativo suscita in Lei è segno di un'ingenuità giovanile che convince e commuove di quéll'ingenuità giovanile che è propria dei poeti. Vivissimi rallegramenti, dunque; e ponga anche me tra i Suoi ammiratori. Mi abbia suo.

 

Recensione sul volume: Terra lundane

Poesia di luoghi, potrebbe essere definita questa poesia in dialetto abruzzese (pescarese, a essere precisi) che Giuseppe Tontodonati ha intessuto nella raccolta di sonetti intitolata "Terra lundame": poesia di luoghi non solo perché l'ispirazione predominante è quella che nasce dalle diverse visioni di città e di paesi e di paesaggi d'Abruzzo, ma anche perché queste visioni, pur restando sempre nitide e precise, perdono ogni concretezza realistica e sembrano sempre sfunìate nella fantasticheria e nel sogno, fatte oggetto di trepidi ricordi e di malinconica nostalgia. Tontodonati ignora, verebbe voglia di dire, la dimensione del presente: anche quando si riferisce a cose che gli stanno sotto gli occhi, dà l'impressione di respingerle indietro nel tempo; e nitto ciò che tocca si fa piccolo e lontano come se egli vedesse il mondo col binocolo rovesciato, e ponesse sempre tra sé e la realtà un magico diaframma di memorie e rimpianti.

Passano così nel suo libro i luoghi che sono famigliari ad ogni abruzzese, ma vi passano come vecchie ingiallite fotografie strette insieme nella compagine di un album: la luce che vi discende e che dà rilievo alle immagini ha un che di indiretto, di spento, di molle edi carezzevole. E sulle cose come sugli uomini s'avverte il lento e implacabile passare del tempo, il succedersi eguale delle stagioni: sulle voci della natura e degli uomini s'marca il grande silenzio dell'oblio e della notte; sulle rumorose vicende s'insinua quasi un presentimento di estremo riposo e di morte. Di qui certi notturni dolcissitni pervasi da una suprema estenuata ma]inconia; di qui, anche, certa sapiente aggettivazione che coglie, al di là delle apparenze, l'essenza segreta dei luoghi descritti; di qui, infine, i modi con cui sono disegnati i tanti personaggi che s'incontrano nel libro e che appaiono costantemente avvolti da un velo di lontananza e di nostalgia. E perciò questa poesia, che ama la gente semplice e la sentenziosità popolare, non è affatto popolare nel suo intrinseco, e nasce da eletto sentire e da severe meditazioni: il che è dimostrato, d'altra parte, dalla stessa perfetta padronanza del dialetto, inalzato a mezzo espressivo duttilissimo, e capace di aderire a tutte le pieghe e le sfumature dell'anima del poeta.

 

Articolo su " Il Tempo - Cultura pescarese " del 11 marzo 1982, dedicato al volume "Raposodia".

La Rapsodia di Tontodonati. Dopo "Terra Lundane", la bella raccolta di poesie in dialetto abruzzese, Giuseppe Tontodonati si ripropone ai suoi lettori con una nuova serie di poesie affatto diversa dalla prima: diversa non solo per il mezzo espressivo, che è questa volta la lingua letteraria e non il dialetto, ma anche, e più, per i temi affrontati ed il tono dell'ispirazione - temi più ardui e severi, ed ispirazione meno sentimentale, forse, e più intensamente lirica. in effetti ciò che caratterizza la Rapsodia, dedicata alla figura emblematica del Guerriero di Capestrano, è la sapiente controllatissima e al tempo stesso irruente intensità del linguaggio poetico: di fronte al proprio particolare dolore, ed al vasto e multiforme dolore del mondo, lo scrittore esprime il suo profondo sentire con un vigore espressivo che mira più all'efficacia che alla chiarezza, più all'incisività che alla discorsività del dettato. Oggetto dell'ispirazione è una realtà umana e naturale contemplata con uno sguardo penetrante e crucciato, e lampegginte di bagliori apocalittici: è una terra d'Abruzzo in cui "il lupo sente il respiro dei nevai/e il crescere dell'erba sui pianori/agli attoniti occhi della notte...", una terra desolata dove "vita e morte/rientreranno nel fiume oscuro del caos" e che spontaneamente si lega a quella tragica e disperata America Latina, dove ha combattuto ed è morto Che Guevara, e dove la libertà è "un roveto ardente nel cuore della notte". Ma questa Rapsodia di Tontodonati non può assolutamente essere spiegata e tradotta in un tranquillo e univoco discorso logico: è veramente anch'essa un "roveto ardente" da cui provengono immagini di straordinaria potenza e dai contorni mutevoli, immagini che hanno spesso un che di sfuggente e di inquitante, che turba e commuove. Solo l'ultima poesia, "Le strade", bellissima, ha un andamento più riposante e sereno, e vale come un approdo oblioso dopo un drammatico itinerario

 

Articolo sulla rivista "La Regione" del novembre 1989: Rileggendo il canzoniere di Tontodonati

Ogni volta che mi accade di riprendere tra le mani il Canzoniere d’Abruzzo di Giuseppe Tontodonati, mentre non posso fare a meno di goderne la fresca e sempre rinnovantesi bellezza, sono quasi istintivamente portato a segnare mentalmente alcune negazioni: asserzioni negative, cioè, che mi sembrano indispensabili alla formulazione di un vero e proprio giudizio critico. La prima negazione è che questa del Tontodonati sia poesia popolare. Il Canzoniere d’Abruzzo che raccoglie tutta la produzione poetica del nostro scrittore non è poesia di facile ispirazione, né si limita a cantare o ricantare gli eterni, elementari motivi che piacciono alla mentalità e alla sensibilità del popolo e sono ad esso più congeniali; è, al contrario, poesia psicologicamente complessa, che nasce da animo esperto dei vizi umani e del valore, e che richiede, per essere convenientemente apprezzata, un lettore colto: un lettore che sia in grado di percepire, al di là del significato letterale del testo, il suo spessore intellettuale e morale. La seconda negazione è che questa poesia, che pure è scritta in dialetto, possa essere definita, rigorosamente parlando, poesia dialettale. Tontodonati non si adegua ad un determinato dialetto, né si serve di una generica parlata abruzzese, ma crea una lingua tutta sua, utilizzando certamente il vernacolo, ma trasformandolo e sovrapponendogli il suggello indelebile del suo gusto e della sua libera inventività. Accade così che, di fronte a certe espressioni, un dialettologo resterebbe perplesso o addirittura sgomento; e tuttavia sono espressioni poeticamente felicissime, e ovviamente inscindibili da quel particolare atteggiarsi del sentimento che richiede, appunto, quel singolare impasto linguistico. La terza negazione è che la poesia del Tontodonati sia poesia propriamente realistica, tutta intesa a riprodurre un certo mondo paesano, a coglierne fedelmente luoghi, personaggi, vicende. La realtà: anzi, la poliedrica, sfaccettata realtà del piccolo mondo abruzzese si avverte certamente nel Canzoniere; ma la si avverte come filtrata attraverso la memoria del poeta, e perciò in certo modo distanziata e lontana, fatta oggetto non tanto di rappresentazione quanto di tenerezza e di nostalgia. Si badi bene, però: nessuna interferenza del cuore, nessuna sbavatura sentimentale offuscano la serenità della visione: Tontodonati ci offre quadretti nitidi e precisi, tratteggiati con perizia infallibile, senza enfasi e senza retorica quadretti che riescono sempre convincenti, e che talora commuovono. Ma sono quadretti non colti dal vero, ma evocati dal ricordo, anzi dalla malinconia del ricordo; e questa malinconia del ricordo crea l’atmosfera invisibile, ma non impercettibile, che avvolge le immagini, e dà ad esse significato poetico. L’animo dello scrittore si interpone tra il mondo rappresentato e il lettore allo stesso modo, verrebbe voglia di dire, che le lenti di un binocolo tra l’oggetto contemplato è l’occhio: lenti perfettamente trasparenti e invisibili, ma al tempo stesso indispensabili alla visione, e tali da dare ad essa la sua particolare ampiezza e i suoi precisi contorni. Ciò spiega come l’Abruzzo che è descritto e che vive nel Canzoniere ci appaia insieme nitidissimo e, come già si diceva, distanziato e lontano: è un piccolo mondo contemplato nella sua inconfondibile fisionomia, ma pur sempre ritrovato nella dimensione della memoria: nella memoria, bisogna aggiungere, di un esule che sa di non poter tornare. Come è noto, Tontodonati fu costretto dalla vita ad abbandonare la sua regione e a trasferirsi a Bologna, dove è lungamente vissuto e dove si è spento; e la sua condizione di esule (sia pure senza il doloroso alone romantico di cui questa parola usa avvolgersi) si fa sentire nell’intonazione della sua poesia: perfino, bisogna aggiungere, nel particolarissimo modo che egli ha di strutturare il dialetto abruzzese, che è per lui una lingua di memoria piuttosto che un linguaggio parlato. Ed è perciò, questo dialetto del Tontodonati, una cosa nuovissima, e, come già s’è accennato, straordinariamente ricco di suggestione poetica: è un modo di esprimersi che lo scrittore crea, si direbbe, ex novo, liberamente rielaborando ciò che egli ricorda della parlata abruzzese, e foggiandosi uno strumento duttilissimo, capace di innalzare a parola ogni esperienza di vita, ogni pur fugace riflessione logica, ogni pur lieve increspatura della coscienza morale. E dunque — per risalire alla prima delle negazioni da cui siamo partiti — niente di popolaresco, di psicologicamente grezzo, di stilisticamente approssimativo, c’è nel Canzoniere di Tontodonati, la cui poesia volentieri indugia sulle sfumature e sui sottintesi, ed è poesia complessa, ricca di sfaccettature e di chiaroscuri. Quali sono i motivi che passano e s’intrecciano in questa poesia? Il tema del passato, anzitutto, e cioè della storia, delle grandi vicende che mutano il destino dei popoli e che si riflettono sulle condizioni degli individui umani, agendo più o meno impetuosamente su di esse, così come la furia del vento che abbatte i grossi tronchi trascina con sè anche i minuscoli fuscelli di paglia; e con le grandi vicende, le piccole cose della vita quotidiana, le minute faccende di cui sono intessuti i giorni della comune esistenza; ed i paesaggi, i luoghi della regione abruzzese, rappresentati con dovizia di riferimenti e vivacità di colori; e i personaggi del nostro Abruzzo, i personaggi come il narratore Ndunducce, il macellaio Cecore, il prete Don Mosé, parroco dalla brutta fama e predestinato ad una tragica fine... E’ tutto un mondo assai vasto, fatto di passato e di presente, di uomini e di natura, quello che si rispecchia e si riassume nel Canzoniere; e la poesia vi raggiunge non di rado momenti di straordinaria intensità e di seducente bellezza. Ecco (tanto per fare qualche esempio, tra i tanti che sarebbero possibili) la malinconica figura del padre del poeta, tutto chiuso nel suo sconsolato silenzio

(Papà chelu surrise l’à perdute / e mmute se ne sta pe ssettemane... »);

e la terribile morte di don Mosé, ammazzato a colpi di coltello

(«Sopr’alla prete lu sanghe ji scole / e, ddope l’urle che jjelò la notte, / a lu trapasse se truvì dda sole»);

e i carbonari che congiurano, a Città Sant’Angelo:

«Nu parluttà segrete, piane piane, / mbò prime che ssunesse matutine... »;

e i terrori di certi paesaggi montani:

«Da Salle morte sott’a lu Murrone, / ddò li fandàsme ggire nghe lu vende...»;
«Da la mundagne, quande se fa sere, / fischie lu vende e ccale lu terrore... »):

sono momenti bellissimi, che restano scolpiti nella memoria e nel cuore.

(tratto dalla rivista “La Regione” Novembre 1989 - numero monografico dedicato a Giuseppe Tontodonati)

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